Il Barbablù di Hans Op de Beeck all’Opera di Stoccarda
Stefano L. Borgioli | Teatri Online, 13 November 2018
Hans Op de Beeck crea per la Stuttgart Oper un’esperienza teatrale intensa e inconsueta. Complici i lavori di ristrutturazione del teatro, l’artista belga mette in scena Il castello del duca Barbablù (A kékszakállú herceg vára), composto da Béla Bartók e Béla Balázs nel 1911, in un grande spazio industriale dismesso, il Paketpostamt (l’ex magazzino dei pacchi delle poste). L’enorme e cupo capannone è un luogo ideale per rappresentare questa storia senza tempo e Hans Op de Beeck, artista visivo e maestro nel mischiare mezzi espressivi diversi, plasma con maestria il messaggio simbolico dell’unica opera di Bartók. L’artista belga realizza un vero e proprio rito in cui perfino l’ingresso alla rappresentazione diventa una piccola liturgia: le comparse del teatro per una volta diventano maestri di cerimonia e prima spiegano agli spettatori il senso della serata (manca infatti nell’esecuzione dell’opera il prologo solitamente recitato da un bardo) e poi li accompagnano al loro posto. Previa vestizione di calosce fornite dal teatro. Si entra difatti in una distesa allagata (il mare delle lacrime della penultima porta del castello?) e si cammina con l’acqua alle caviglie. Nel mezzo dell’antro buio del Paketpostamt appare un lungo pontone di legno proteso sull’acqua. Bidoni di benzina illuminano fiochi la tenebra. Si attraversa questa palude con movenze da acqua alta a Venezia, fino a riguadagnare l’asciutto per accomodarsi ai nostri posti, divisi in vari settori attorno al luogo dell’azione. Nel frattempo l’aere sanza stelle del vecchio deposito riecheggia di sussurri e voci fioche che rimandano a un girone dantesco. Una volta sistemati tutti gli spettatori, arriva Titus Engel in bicicletta, si toglie la cerata, sale sul podio e la recita vera e propria ha inizio.
Tutta l’azione si svolge su quella banchina alla fine di un qualche mondo senza colori, fra isolette di sabbia, tronchi rinsecchiti, relitti di vita quotidiana. Vecchi copertoni. Una landa desolata che rende alla perfezione l’atmosfera di straniamento e di solitudine della pièce. Barbablù è sul molo quando arriva Judith, zaino in spalla. Una globetrotter a giro per il mondo. I due cominciano a interagire, si avvicinano e si allontanano come le orbite di due pianeti che mai si incontreranno. Judith vorrebbe portare luce nella tenebra del castello. Chiede con insistenza che si spalanchino le porte delle stanze del maniero, simbolo dell’animo e del passato nascosto di Barbablù. Nello spettacolo di Hans Op de Beeck mancano le porte e l’esplorazione progressiva del mondo di Barbablù è portata avanti dalla musica, dalla recitazione dei due cantanti e dai giochi sapienti di luci e ombre. Il pubblico condivide lo stesso spazio dei protagonisti e in qualche modo pare avere un ruolo se non proprio attivo, almeno vagamente voyeuristico. Lui è accigliato, refrattario ad aprire i suoi segreti. “Judith, ama e non domandare”. Lei è decisa, una donna forte. Lo ama e vuole conoscere. “Io voglio sapere!”. Fino all’inevitabile separazione. Judith riprende il suo zaino e se ne va com’era arrivata (e già le va bene rispetto al finale standard della favola di Bartók e Balázs). Barbablù riprende la sua bici ed esce dalla scena. A volte troppa conoscenza nega l’amore.
L’installazione di Hans Op de Beeck crea una full-immersion nella favola, ma è impossibile che la potenza drammatica e simbolica della musica di Bartók finisca in secondo piano. L’opera, di cui ricorre quest’anno il centenario della prima assoluta, è un breve atto unico da centellinare attimo per attimo, attraverso tutti i tableaux che lo compongono. Partendo dalla fosca sezione iniziale cambiano i colori della narrazione e i volumi orchestrali si espandono fino all’apoteosi sonora della quinta porta (con gli ottoni schierati dal lato opposto dell’orchestra), per poi recedere via via che si scivola verso il cupo finale. Titus Engel guida con precisione e chiarezza la Staatsorchester Stuttgart facendo risaltare tutti i ricchi particolari della trama intessuta da Bartók: dai passaggi più intimi a quelli in cui prevalgono i clangori più drammatici, come nella camera della tortura.
I due antieroi si calano alla perfezione nello stile vocale dell’opera di Bartók, fatto di recitativi brevi, spesso spezzettati, che poi si dilatano verso momenti di appassionato lirismo. Claudia Mahnke è una Judith di grande intensità. Il mezzosoprano, in un ruolo che è uno dei suoi cavalli di battaglia, restituisce con la voce e il gesto tutta la gamma dei sentimenti che passano nell’animo della protagonista: dalla speranza, alla paura, allo sconforto finale. Il basso-baritono Falk Struckmann, vestito da pensionato di lungo corso, è un Barbablù disincantato e di forte impatto per vocalità e recitazione. Alla fine grandi applausi per tutti i protagonisti di questo spettacolo che rimarrà nella memoria, se non altro per la sua particolarità nel raccontare lo psicodramma Bartokiano.
English:
Hans Op de Beeck creates an intense and unusual theatrical experience for Stuttgart Oper . Thanks Due to the refurbishment of the theatre, the Belgian artist stages ‘Duke Bluebeard’s Castle’ ( A kékszakállú herceg vára ), composed by Béla Bartók and Béla Balázs in 1911, in a large disused industrial space, the Paketpostamt (the former parcel post-office). The huge and gloomy building is an ideal place to represent this timeless history and Hans Op de Beeck, visual artist and master in mixing different means of expression, masterly shapes the symbolic message of Bartók's only work. The Belgian artist creates a real ritual, in which even the entrance to the space becomes a small liturgy: the extras of the theatre performance become masters of ceremony, and first explain to the audience the sense of the evening (in place of the ‘prologue’ usually played by a bard) and then accompany them to their place. After putting on of dressing of overshoes provided by the theatre, you enter in fact a flooded expanse (the sea of tears of the penultimate gate of the castle?) and you walk through ankle deep water. In the dark cave of the Paketpostamt appears a long wooden pontoon leaning over the water. Petrol bins dimly light the darkness. You cross this swamp with movements as if you were in Venice and it’s high water, until you return to dryness and accommodate yourself to your seats, divided into various sectors around the place of action. In the meantime, the starless sky of the old post office echoes with whispers and faint voices referring to Dante’s circles. Once all the spectators are settled, Titus Engel arrives on his bike, takes off his oilskin, gets on the podium and the real performance begins.
All the action takes place on that quay, at the end of some colourless world, among small sandy islands, dried trunks, wrecks of everyday life. Old tires. A desolate land that makes perfect the atmosphere of estrangement and solitude of the piece. Bluebeard is on the pier when Judith arrives as a backpacker, a globetrotter around the world. The two begin to interact, approach and move away like the orbits of two planets that will never meet. Judith would like to bring light into the darkness of the castle. She insistently asks to open the doors of the rooms in the manor, symbolising the soul and the hidden past of Bluebeard. In Hans Op de Beeck’s performance the doors are missing, and the progressive exploration of the world of Bluebeard is carried forward by the music, by the recitation of the two singers and by the skillful use of lights and shadows. The audience shares the same space as the protagonists and somehow seems to have a role that, if not really active, is at least vaguely voyeuristic. He is frowning, refractory to open his secrets: "Judith, love and do not ask". She is determined, a strong woman. She loves him and wants to know: "I want to know! ". Until the inevitable separation. Judith picks up her backpack and leaves as she arrived (she is lucky to get by, as the standard finale of Bartók and Balázs does not end so well). Bluebeard resumes his bike and leaves the scene. Sometimes too much knowledge denies love.
The installation of Hans Op de Beeck creates a full-immersion in the fable, but it is impossible that the dramatic and symbolic power of Bartók's music ends up in the background. The work, which this year marks the centenary of the premiere, is a short unique act to be slowly savored, moment by moment, through all the tableaus that make it up. Starting from the dark and gloomy initial section, the colours of the narration change and the orchestral volumes expand to the apotheosis of the fifth sound (with the brass lined up on the opposite side of the orchestra), and then gradually recede to the gloomy finale. Titus Engel leads the Staatsorchester Stuttgart with precision and clarity, highlighting all the rich details of the plot woven by Bartók: from the most intimate passages to those in which the most dramatic clangors prevail, as in the torture chamber.
The two anti-heroes perfectly identify with the vocal style of Bartók's work, made up of short recitatives, often fragmented, which then spread to moments of passionate lyricism. Claudia Mahnke is a Judith of great intensity. The mezzo-soprano, in a role that is a ‘warhorse’ of her repertoire, returns with her voice and gesture the full range of feelings that pass in the soul of the protagonist: from hope, to fear, to final despair. The bass-baritone Falk Struckmann, dressed as a long-time retiree, is a disenchanted Bluebeard with a strong impact on vocal and acting. In the end, great applause for all the protagonists of this show that will remain in memory, if not only because of its uniqueness in telling the Bartokiano psychodrama.