The Valley (an apocalypse) Review
Joele Schiavone | Teatrionline, 28 September 2019
Se siamo fortunati, non importa se scrittori o lettori, finiremo l’ultimo paio di righe di un racconto e ce ne resteremo seduti un momento o due in silenzio. Idealmente, ci metteremo a riflettere su quello che abbiamo appena scritto o letto; magari il nostro cuore e la nostra mente avranno fatto un piccolo passo in avanti rispetto a dove erano prima. La temperatura del corpo sarà salita, o scesa, di un grado. Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, non importa se scrittori o lettori, ci alzeremo e, “creature di sangue caldo e nervi”, come dice un personaggio di Cechov, passeremo alla nostra prossima occupazione: la vita. Sempre la vita.
The Valley (an apocalypse) siede sui gradoni del Romaeuropa Festival portando sulla scena il lavoro di Hans op de Beeck, di Eric Sleichim con la sua Bl!ndman Ensemble per la drammaturgia di Tobias Kokkelmans. Un’opera coraggiosa – andata in scena al Mattatoio di Roma – che conduce lo spettatore nei meandri onirici di psyché risvegliando in esso memorie sopite non proprie, o non del tutto, memorie che son al tatto simili e totalmente differenti, memorie che sono archè e che come tali vanno generando universi tanto personali quanto collettivi. In questo paesaggio simbolico contemporaneo riconosciamo un ensemble di sassofoni al cui centro suona magica una fisarmonica; la disposizione dei musicisti, dei gong, degli archi, dei bicchieri e degli altri oggetti di scena crea un cerchio estatico nel quale ogni realtà ha il suo contrappeso e riflesso, non solo per quel che riguarda lo spazio orizzontale ma anche e soprattutto quello verticale, poiché alla base del tutto vi è un rettangolo d’acqua, specchio fluttuante dell’animo umano, e dell’apparenza scenica di cui andiamo godendo.
Hans Op de Beek – artista visivo belga eclettico, abituato all’attraversamento delle diverse arti – ci dona un mondo fatto di ombre che sembra abitare al di sotto della superficie terrestre e nascere lì dove un portone arrugginito incontra la fantasia (un sogno?) di un ragazzo e questa delle scale costruite con le parole delle diverse generazioni: quelle dei nonni, delle nonne, dei padri e delle madri che per accompagnarci nell’addormentamento usavano narrarci delle storie, delle fiabe la cui magia portiamo ad oggi dentro noi, la stessa magia danzante immagini sensoriali di cui ci viene in questo mistero fatto dono, risvegliando in noi l’odore di anice e menta di un luogo, la sensazione delle onde sulle caviglie, l’assordante silenzio di un abbandono, il fruscio di un animale tra le foglie, il contatto penetrante d’un soffio d’amore sulla pelle, la pienezza di due corpi stesi e intrecciati in un raggio di luna, la lacerazione di un ricordo inafferrabile, l’impeto di un desiderio che sa di violenza, miele e sale. Evocazione di strati vitali sotto la scorza del pianto in una calma che sa di pace e tranquillità, d’abbandono e grazia.
Per quanto possa essere – nei contenuti – tragica la narrazione di The Valley (an apocalypse), scorgiamo in essa una profondità, un’estasi, una bellezza che permane, e risuona nelle liriche dell’angelo presente sulla scena, nella voce della donna della valle, nella musicalità e nelle vibrazioni dei sassofoni il cui apporto delinea forme di luce, sensazioni organiche, verginità esperienziali attraverso cui viene esaltata, più precisamente delineata, smorzata e accompagnata l’esperienza di Dirk Roofthooft, un interprete eccelso capace di catapultare lo spettatore all’interno dell’esperienza sensoriale di cui va raccontando, un interprete il cui corpo si fa scenario di immaginari, incontri, memorie, parole, desideri, bisogni trasmutandosi nell’uso della parola, attraverso la potenza evocativa del gesto. Il suo corpo è un atlante segnato dal tempo, e in esso la pastosità, la storia, l’adagio permette che si disveli l’amianto nella brillantezza di una perla.
Un’opera visiva capace di far entrare lo spettatore in un sogno tanto esteriore quanto interiore, nella cura degli elementi, nei suoni – dai più naturali ai più industriali – nella magia di un dispositivo scenico, nella luce celestiale che attraverso la pelle e delle palpebre, ora chiuse ora aperte, trasmette omeostaticamente la valle. Un’apocalisse poetica esistenziale la cui trattazione passa dal cannibalismo alla genitorialità, all’isolamento, all’erotismo… Un’esperienza in cui immergersi con tutto il corpo e l’attenzione necessaria. Consigliata visione.
English:
"If we are lucky, no matter whether writers or readers, we will finish the last couple of lines of a story and sit there for a moment or two in silence. Ideally, we will reflect on what we have just written or read; maybe our heart and mind will have taken a small step forward compared to where they were before. The body temperature will have risen, or fallen, by one degree. Then, after having begun to breathe regularly, we will be reassembled, no matter whether writers or readers, we will get up and, "creatures of warm blood and nerves", as one of Chekhov's characters says, we will pass to our next occupation: life. Always life .
The Valley (an apocalypse) sits on the steps of the Romaeuropa Festival bringing to the stage the work of Hans op de Beeck, by Eric Sleichim with his Bl!ndman Ensemble for the dramaturgy of Tobias Kokkelmans. A courageous work - staged at the Mattatoio in Rome - which leads the viewer into the dreamlike meanders of psyche, awakening in it dormant memories not its own, or not at all, memories that are similar and totally different to the touch, memories that are archè and which as such are generating universes as personal as collective. In this contemporary symbolic landscape we recognize an ensemble of saxophones in whose center an accordion plays magic; the arrangement of musicians, gongs, strings, glasses and other props creates an ecstatic circle in which every reality has its counterweight and reflection, not only with regard to horizontal space but also and above all vertical space, since at the base of everything there is a rectangle of water, a fluctuating mirror of the human soul, and of the scenic appearance of which we are enjoying.
Hans Op de Beek - an eclectic Belgian visual artist, accustomed to crossing the different arts - gives us a world of shadows that seems to live below the earth's surface and where a rusty door meets fantasy (a dream?) Of a boy and this of the stairs built with the words of the different generations: those of the grandparents, grandmothers, fathers and mothers who used to tell us stories, fairy tales whose magic we bring to today inside us, the same magic dancing sensory images of which we come in this mystery made a gift, awakening in us the smell of anise and mint of a place, the sensation of the waves on the ankles, the deafening silence of an abandonment, the rustling of an animal among the leaves, the penetrating contact of a breath of love on the skin, the fullness of two bodies stretched and twisted in a moonlight, the laceration of an elusive memory, the impetus of a desire that smacks of violence, honey and salt. Evocation of vital layers under the bark of tears in a calm that smacks of peace and tranquility, of abandonment and grace.
As it may be - in its contents - the narrative of The Valley (an apocalypse) is tragic, we perceive in it a depth, an ecstasy, a beauty that persists, and resounds in the lyrics of the angel present on the scene, in the voice of the woman of the valley, in the musicality and vibrations of the saxophones whose contribution outlines forms of light, organic sensations, experiential virginity through which the experience of Dirk Roofthooft is exalted, more precisely outlined, damped and accompanied, an excellent interpreter able to catapult the viewer to an interior of the sensory experience of which he is telling, an interpreter whose body becomes the scene of imaginaries, encounters, memories, words, desires, needs transmuted in the use of the word, through the evocative power of the gesture. His body is an atlas marked by time, and in it the softness, the history, the adagio allows the asbestos to be revealed in the brilliance of a pearl.
A visual work that allows the viewer to enter a dream that is as exterior as interior, in the care of the elements, in the sounds - from the most natural to the most industrial - in the magic of a scenic device, in the celestial light that through the skin and eyelids , now closed now open, transmits the valley homeostatically. An existential poetic apocalypse whose treatment passes from cannibalism to parenthood, isolation, eroticism ... An experience in which to dive with the whole body and the necessary attention. Recommended vision.